Il legname

Lo sfruttamento delle foreste e il trasporto del legname
L´economia delle valli superiori era incentrata su mestieri poveri. Tempo addietro, lo stesso Leonardo da Vinci, visitando quelle valli, annotó che “per esso fiume si chonduce assai legniame“. L´osservazione fu ripresa in seguito da molti economisti che annotarono come nella provincia montana di Sondrio lo sfruttamento forestale rivestisse sempre grande interesse per la richiesta dei mercati di Milano di una materia prima importante come il legno. Sin da epoche remote il legname della Valtellina e della Valchiavenna veniva inviato nel fondovalle per mezzo di canaloni, chiamati sovende; dai margini del bosco i tronchi venivano poi buttati nella corrente dei corsi d´acqua, raccolti su zatteroni alla foce ed avviati, via lago, a Lecco o a Como; in seguito furono spediti su carri a Milano e anche piú lontano per la richiesta pressante di legno a partire dal 1830 c.a. Questo lavoro rappresentava l´unica possibilitá di guadagno per molti. “Gli uomini tagliavano gli alberi, mentre le donne erano addette al trasporto in paese. Su ciascun asse veniva scritta una lettera dell´alfabeto corrispondente al nominativo di chi lo trasportava per sapere con precisione alla fine quante assi una persona portava e quindi quanto dovesse essere pagata. Questo particolare lavoro veniva iniziato nel mese di aprile fino a settembre“. (Da una conversazione con Domenico Mazzoni, a cura di Massimo Dei Cas. www.paesidivaltellina.it). Legato al legno era anche Il mestiere difficile del carbonaio.
Nella Valle Spluga in passato molte segherie alla veneziana lavoravano grazie alla forza motrice dell’acqua.

 

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Lizze e sovende
Il trasporto era, dunque, il lavoro piú lungo e faticoso. “Allo scopo si utilizzavano tutti i mezzi che offriva la natura. Dai burroni scoscesi o lizze, dette doghe, tronchi e legni venivano fatti rotolare verso il basso, poi trainati alle lizze successive lungo le strade, sorta di larghi sentieroni tagliati per lo piú in orizzontale sulle pendici della montagna; alla bisogna servivano carri primitivi ad assali e a ruote trainati da buoi, sostituiti solo in tempi piú recenti da slitte a cui si applicavano talora ruote di ferro e che venivano tirate da muli. Dove possibile venivano preparate piste ghiacciate facendo correre l´acqua di qualche sorgente su erti pendii elevati. Venivano denominate sovende e vi si gettavano sopra i legni che andavano a fermarsi in basso, generalmente in avvallamenti, ma anche contro i tronchi di qualche bosco sottostante. Il piú delle volte, peró, era l´uomo a guidarne la discesa; egli teneva una fascina sotto il braccio; altre due venivano agganciate a quelle e poi erano legati tronchi a formare una larga coda che col suo peso spingeva il guidatore al quale toccava il compito di frenare la massa scivolante. Il gelo e il disgelo, alternandosi, rendevano vitree le piste in modo che, gettandovi sopra i tronchi liberi, questi scivolavano sino a valle. Talora le sovende descrivevano curve anche strette; con straordinaria abilitá i guidatori, buttando tutto il peso all´interno, riuscivano a vincere la forza centrifuga e a mantenersi nella pista. Sul principio del secolo apparvero le prime corde metalliche e sembró che una nuova era si aprisse per i boscaioli.” (D. Mazzoni, op. cit.)

Il mestiere della “sovenda”
La decrizione della “sovenda” fatta dal Morselli é precisa e puntuale: “Men brutale é il sistema delle sovende vie inclinate formate colle piante stesse, sopra cui si fa scorrere l´acqua sicchè geli; allora vi si lasciano scivolare i recisi pedali. Ma poichè la sovenda non puó offrir una discesa regolare come la slitta russa, dove é un risvolto e un po´ di piano, i legni gittansi di traverso o si fermano….Si trattava di un mestiere antico una sua precisa codificazione anche sociale; figura di spicco era quella del “borellèe” che con un “raffio alla mano” spingeva i tronchi sullo sdrucciolo ghiacciato. “Il borellajo veste come i montanari, ma con quel non so che di bizzarro che distingue gli uomini avventurantisi ai pericoli”: aveva una fascia verde che penzolava dai fianchi e serrava “stretti” i calzoni sul ginocchio“. (S. Morselli, op. cit.)

La “trentina”
Dai tronchi, utilizzando l´acqua come forza motrice, si ricavavano le assi (trentina: particolare sezionatura del tronco di legno). Con l´abete rosso e il pino silvestre si facevano tavole per il fuoco; dal pioppo si ricavavano tavole per i muratori; con il pino rosso e il pino bianco (abete bianco) si facevano, invece, mobili. “Per abbattere la pianta si usava la scure e due cunei di legno. Il tronco veniva tagliato in pezzi da 4 a 6-7 metri di lunghezza. Si toglievano i rami e la corteccia e poi si facevano le tavole. Per fare queste tavole si usava la trentina. Questa macchina veniva usata in tre persone, uno di sopra e due di sotto; questi sotto mettevano gli occhiali altrimenti la segatura andava negli occhi. Si metteva il tronco su un cavalletto e per andare dritto a tagliare i tronchi si usava il filo di cotone tinto con la polvere rossa. Ad autunno inoltrato iniziava il greve lavoro del taglio e del trasporto della legna.” (D. Mazzoni, op. cit.)

Gli attrezzi del legnaiolo
Gli attrezzi del legnaiolo erano semplici, ma di forma e di fattura dettate da un´esperienza millenaria. “Per abbattere i grossi tronchi servivano la scure e l’accetta; per i rami la falce con un´impugnatura di cuoio; il roncolino per i ramicelli e i virgulti.”. (D. Mazzoni, op. cit.)

“Dei legni resinosi, forti e dolcii”
La ricchezza della valle, secondo il Morselli, era costituito dal patrimonio vegetale “D´assai piú rilievo sono le ricchezze vegetali, e soprattutto i boschi”. Seguiva una lunga dissertazione sui diversi tipi di legname “Lasciando via quel che é curiositá botanica o classificazione scientifica, vulgarmente si distinguono i boschi secondo che sono di legno resinoso, legno forte o legno dolce. Dei resinosi son principali l´abete rosso (pescia), il larice, l´avezzo, il pino mugo, il nano, il silvestre, l´abete bianco o zembro che produce i pistacchi. Tali boschi montano fin quasi a 2000 metri d´altezza; ma le piante non si adoperano gran fatto sui camini, perchè dan un fuoco di breve durata, schioppettano in grazia dell´idrogeno carbonato che si svolge dalla resina che contengono, e talora puzzano: oltrechè si preferiscono a uso di costruzione, o per sostegni di viti. Ben servono pei forni da pane, da calce, da vetri“.

Di legno forte sono le quercie, il carpino bianco e nero, il frassino, l´orno, il noce, il castagno, il ciliegio, il pomo e il pero, principalmente il faggio.
Questo alligna in piano e in monte, in scogliera come in giogaja, in valle come in poggio, nelle terre leggere come nelle tenaci, resistendo a rigidi inverni e a cocenti estati, non soffrendo dalle gragnuole che li colgano nel pieno suo frondeggiare; seguita a crescere fin a 300 e piú anni; e produce di piú che qualunque altra essenza nei nostri paesi“. La dissertazione proseguiva con l´elogio del faggio e delle sue applicazioni pratiche “La sua corteccia serve alle concerie; le foglie ai pagliericci: dei semi son ghiotti gli animali, e se ne trae un olio grasso: il legno é buono per fabbrica e per opera, e il piú opportuno come combustibile, dando il miglior carbone, bruciando con fiamma vivace e poco fumo, lasciando ceneri ricchissime di potassa.”…”delle altre piante forti suddette valutasi piuttosto il prodotto che il legno, nè se ne fanno selve intere; eccetto il castagno; e il noce per lavori fini, a cui son opportuni anche il pero, il ciliegio, ecc“.
Sono di legno dolce il pioppo, l´ontano, la betulla, la robinia pseudacacia, il nocciuolo, il salcio, l´olmo, la vite. Servono al fuoco, e han preferenza il pioppo, l´ontano, la betulla, che vegetano rapidamente nei luoghi umidi, costano poco, e dan fiamma vivace e potente. Devono peró essere ben secchi e spaccati. Piú accensibile e calorifero é il legno del nocciuolo e della robinia. Poco o nessun vantaggio si trae qui dai boschi per materie coloranti, resine, gomme; nè gran fatto dalla corteccia per concerie di pelli. I resinosi danno eccellenti legnami d´opera, al fuoco destinando i rami, le cime, e i pedali guasti“. (S. Morselli, op. cit.)

Le segherie 
Le segherie avevano un ruolo importante nell´economia del legno. “Naturalmente parte dei tronchi ricavati dai nostri boschi veniva trasformato anche da segherie operanti all´interno della provincia; segherie che dovevano essere di assai modesta ampiezza se statistiche del 1844 attribuiscono alle stesse meno di 2 addetti per azienda. Il numero delle stesse, secondo i dati di una decina di anni prima, era di 59 e tale risulterá anche nel 1890.” (D. Mazzoni, op. cit.). A partire dal dopoguerra anche il taglio dei boschi declinó progressivamente . “Il fenomeno fu dovuto a diverse cause: in un primo tempo per l´impoverimento dei boschi in alcune zone della provincia; poi a causa della concorrenza dei paesi esteri; infine a causa dell´introduzione dei tubi metallici per impalcature in edilizia, un tempo realizzate in tronchi di legno.” (D. Mazzoni, op. cit.)