Percorsi d’autore

In ambito italiano
In ambito italiano Giosué Carducci, primo premio Nobel italiano per la letteratura (1906), trascorse le estati a Madesimo tra il 1888 e il 1905 ricevendone la cittadinanza onoraria nel 1901. Salvatore Quasimodo passó lo Spluga piú volte e cosí Giovanni Guareschi, l´autore della fortunata serie di Don Camillo e Peppone. Dino Buzzati scrisse un memorabile articolo sul “Canalone Groppera” pubblicato sul Corriere della Sera del 18 agosto 1965. Il poeta Giovanni Bertacchi, uno dei maggiori poeti dei paesaggi montani, colse attimi molto intensi al cospetto delle montagne e dei paesaggi dello Spluga.

G. Carducci, “Sant´Abbondio”, da “Rime e Ritmi”, 1898
“Nitido il cielo come in adamante
D´un lume del di lá trasfuso fosse,
Scintillan le nevate alpi in sembiante
D´anime umane da l´amor percosse.
Sale da i casolari il fumo ondante
Bianco e turchino fra le piante mosse
Da lieve aura: il Madesimo cascante
Passa tra gli smeraldi. In vesti rosse
Traggono le alpigiane, Abbondio santo,
A la tua festa: ed é mite e giocondo
Di lor, del fiume e degli abeti il canto.
Laggiú che ride de la valle in fondo?
Pace, mio cuor; pace, mio cuore. Oh tanto
Breve la vita ed é si bello il mondo! ” 

G. Carducci, “Lago Azzurro”, da “Rime e Ritmi”, 1898
“Nè con un raggio il sol, nè timida un´anima d´aura
rincrespa il velo puro de l´acque. S´ode
lento di quando in quando tinnire il campan de le vacche
sperse nel pasco raro tra´ larici alti.
Quando divenni io qui? Sospese giá l´ora il suo passo
od io giá vissi spirito errante qui?” 

G. Bertacchi, “Scendendo la via dietro un placido gregge”, da “Il perenne domani”, 1929
“Calano al piano dai ridenti Andossi,
dalle conche pasciute in Val di Lei.
dietro un lento squillar di bronzi mossi.
Cantilena piú mesta io non potrei
trovar nel mondo, sul cui metro ondeggi
la tacita armonia de´ sogni miei.
Oh, misurar la vita in su le leggi
dell´erbe e degli armenti; andar le belle
notti, seguendo un tintinnio di greggi;
salutare ogni dí forme novelle
d´ingenua vita; uscir della memoria
di ció che fui, richiedere alle stelle
l´antico Iddio; l´avara arte e la gloria
travagliata depor lento, dal cuore;
dimenticar degli uomini la storia,
fino a trovarmi semplice pastore!” 

G. Carducci, “Elegia del Monte Spluga”, da “Idilli Alpini. Rime e Ritmi”, 1898
“E vidi su gli abeti danzar li scoiattoli, e udii
sprigionate co´ musi le marmotte fischiare.
E mi trovai soletto lá dove perdevasi un piano
brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro
ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace
tutto: da´ pigri stagni pigro si svolve un fiume :
erran cavalli magri su le magre acque: aconíto, 
perfido azzurro fiore, veste la grigia riva.” 

G. Bertacchi, “Sonetti Alpestri”, da Il “Canzoniere delle Alpi”, 1895
“I verdi balzi e i pascoli ridenti
reduce pellegrino ho riveduto;
ai ghiacci eterni, ai tumidi torrenti
ho ridato dal cuore il mio saluto.
Qui dove io seggo schiudesi agli intenti
sguardi il riso del ciel limpido e muto;
qui dove io seggo il mio pensiero in lenti
desideri di pace erra perduto.
La catena dell´Alpi in ampio giro,
variata di nevi e di pinete,
in vallata profonda, ecco, s´adima:
e vagabonda d´una ad altra cima,
solca una nube l´immortal quiete
della nitida volta di zaffiro.” 
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“Per ardue chine il piede irrequieto,
sognatore anelante, affaticai;
l´ombra cupa dei boschi, e il terso e lieto
biancheggiar delle nevi io ricercai:
delle cascate udii per l´aere cheto
l´inno scrosciar che non si stanca mai…
Sognatore anelante il gran segreto,
il segreto dell´Alpi interrogai…
E mi piovve nel cuor, preso a l´incanto
di sí bella natura, un´insueta
smania di sogni ed un desio di canto.
Ma fra tante armonie mancó la sola
per ch´io potessi diventar poeta:
al mio canto mancó la tua parola.”

G. Bertacchi, “Echi dell´ Alpi Retiche. Plenilunio”, da “Il Canzoniere delle Alpi”, 1895
“Ne l´umido seren, nei miti albori,
sembra che il verde si dilegui e veli;
ombre giganti e pallidi candori
han l´ardue rocce e i sempiterni geli.
Nel riflesso chiaror tenui vapori
si diffondono come aerei veli:
la fredda luce gli ultimi fulgori
manda a le lontananze erme de´ cieli.
Etere e luce anch´esso il pensier mio
i brevi sogni riconfonde in questo
sogno de l´universo, in questo oblio.
In voi ritorna, o chiare paci, o scene
sconfinate, che sempre e l´aere mesto
vi rinnovate vergini e serene.” 

G. Bertacchi, “Valichi e confini”, da “Il Canzoniere delle Alpi”, 1895
“Chi sa di loro? E pur su l´ardue chine
vennero i forti a le possenti lotte
con la materia; le rombanti mine
fra le balze mugghiar fumide e rotte.
Ecco: la via per le foreste alpine
corre; s´addentra ne la cupa notte
de la montagna e l´ultimo confine
rade a l´abisso che i torrenti inghiotte.
Chi sa di loro? E pur facile un passo
dier qui a le genti, e, vinta la natura,
le frontiere segnar d´un breve sasso.
Io penso, o ignoti, al dí che, ne la gloria
del redento lavor fatta secura,
sorga al mondo per voi la nova storia.”

 

Dino Buzzati, “Il Canalone”

Si puó presentare una pista di sci come un´opera d´arte senza cadere nella vuota retorica? lo penso di sí. E allora se i confini dell´arte sono ormai tanto elastici, é poi tanto irriverente definire capolavoro la pista dei Groppera sopra Medesimo? Se la sorvolate in elicottero, vi sembrerá soltanto uno dei tanti canaloni che solcano i fianchi di queste montagne, le quali non vantano straordinari splendori. Se invece la percorrete in sci, vi sentirete aprire a una travolgente meraviglia. Gli sciatori che me ne hanno parlato -e alcuni di essi conoscevano bene l´intero repertorio sciistico d´Europa- sono stati concordi: é la piú bella pista delle Alpi. Infatti quando sono uscito dalla stazione sommitale della funivia, esattamente a 2.960 metri, e mi sono affacciato alla svasatura che precipita di sotto, la prima volta confesso di essere rimasto perplesso. Dal ballatoio non si puó ancora scorgere l´enorme imbuto, ma se ne scorge appena l´inizio. E la pendenza e la livida penombra non lasciano presagire nulla di buono. Si mettono gli sci, si traversa a destra per una trentina di metri in scivolata diagonale, ci si immerge col batticuore nel baratro. La pista non é stata battuta, la neve non sará assestata, le virate su di un pendio cosí severo saranno un problema. E se si cade dove ci si fermerá? Ma la neve tiene, benchè non battuta, esposta a nord com´é, ha, fino a metá giugno, la perfezione tipica dell´alta montagna. Le concavitá dei primo erto cunicolo lusingano i movimenti aiutando le curve con elastico rimbalzo da un versante all´altro. Ben presto la stazione della funivia scompare lassú in alto, ci si trova immersi nel cuore dei canalone. E all´improvviso le rocce, le creste, i contrafforti, le gobbe che da lontano parevano insulse forme, acquistano, visti da presso, una intrigante personalitá. Che cos´é un canalone? Perchè, rispetto alle piste aperte che sono la grandissima maggioranza, offre singolari voluttá? Il canalone é un corridoio, uno scosceso viale, una lunga prigione in cui si resta chiusi. Da una parte e dall´altra impraticabili quinte di rupi. C´é molto piú carica di solitudine. C´é un gioco molto piú fantastico di luci e di suoni: e c´é l´incanto della intimitá, lo stesso che si assapora in parete, su per i grandi camini e diedri, intimitá veramente simile a quella della nostra camera da letto; per cui le lingue di neve, le infossature, i macigni, gli aerei baldacchini assumono un´espressione pressochè umana. Si direbbe che qualcuno ci aspetti, che ci spii tra le rocce. Ogni angolo, cavitá, anfratto, sembra invitarci a restare, promettendo misteriose beatitudini. Nei canaloni, non sulle pareti o sulle creste, vivono gli elfi, i gnomi, gli antichi spiriti della montagna. Attraverso il favoloso scenario, la pista si incurva, si allarga, spaziando in vertiginosi anfiteatri, si raccoglie a cucchiaio, concede respiro, poi si restringe di nuovo, si impenna come se dietro quella gobba si spalancasse un impossibile abisso. Ma anche l´erta strettoia fa di tutto per non scoraggiare come le curve sopraelevate dei velodromi felici, anzi trascina agilmente gli sci in armoniosi zig zag che riescono da soli. Quindi si allarga ancora in maestose cavee ciascuna delle quali ha una luce particolare, un´espressione e una atmosfera diversa dalle altre. Altri due canaloni sono giustamente famosi nelle nostre Alpi, tutti e due sopra Cortina: le Tofane e il Cristallo. Quello del Groppera (che brutto, zotico e inelegante nome peró), li supera per potenza architettonica. Mille metri secchi di dislivello, tre chilometri e mezzo di percorso. Dopodichè il divino toboga si estingue a ventaglio su di un vasto pianoro E qui riprende la febbre. Presto allo ski lift che riporterá su alla stazione intermedia della funivia, tornare in cima, rimettere gli sci, buttarsi ancora giú per il favoloso scivolo, scrivere sull´innominabile cateratta bianca irrigidita tra i dirupi, la nostra piccola fatua personale illusione. Fino a quando?

 

Carlo Castellaneta,(1930-2013)

Quel paese, Fracisicio non lo avevo mai sentito. Lo nominó la prima volta mio padre, un giorno del 1942, per annunciare a me dodicenne e ai miei fratelli piú piccoli che saremmo sfollati lassú in montagna, per sottrarci ai bombardamenti inglesi su Milano.
Certo no potevo immaginare, partendo in treno per Chiavenna e da li in corriera per Campodolcino, che a Fraciscio, in quel borgo di rudi montanari a 1300 metri d´altezza, dove la strada finiva sul sagrato della chiesa, io avrei passato tre anni straordinari, fino alla conclusione della guerra.
Ci sistemammo in una casetta a due piani presa in affitto da un falegname, dove il riscaldamento esisteva solo al piano terreno ed era fornito da una primordiale stufa di forma cubica detta pigna.
Cinquant´anni fa nei paesi della Valle Spluga erano rare le abitazioni che disponevano di caloriferi, ma soltanto di caminetti nelle da letto, e della pigna nel tinello. Ogni casa ne possedeva una, ricoperta da uno spesso lastrone di pietra, e sopra la pigna l´intera famiglia, tolti gli scarponi, prendeva posto per conversare, per riposare, per fumare, e le donne per cucire e sferruzzare.
Per noi ragazzi di cittá il primo effetto positivo dello sfollamento a Fraciscio (dove esisteva appena un´approssimativa scuola elementare) fu l´interruzione degli studi, poi proseguiti con lezioni private e quindi una totale disponibilitá di tempo libero. Eravamo arrivati in autunno, con i larici che si tingevano di rosso, e presto vedemmo la neve ricoprire alberi e tetti e campi trasformando il paesaggio in un immenso biancore.
Anche da piccolo avevo amato la montagna, ma trovarmi immerso nella natura come se vi abitassi, mi trasformó in breve in un vero piccolo alpino. Ogni giorno imparavo qualcosa: a usare il segürin per spaccare la legna; a offrire il sale alle capre; a riconoscere le impronte degli animali sulla neve; a portare la gerla riempita dalle pigne che cadevano dai pini e servivano per alimentare la stufa; a servire Messa come chierichetto, a legare le fascine; a usare il falcetto; a portare la slitta e infine a sciare.
Quella dello sci fu per me una dura scuola. Fraciscio non aveva una sola pista degna di questo nome, nè tantomeno impianti di risalita. Si veniva giú, sull´esempio dei ragazzi del posto, saltando i muretti e fermandosi con un telemark dove si poteva. Poi si doveva risalire a spina di pesce, io con degli smisurati sci di frassino che erano appartenuti a mio padre. Erano sci rigidi che si spezzavano facilmente al puntale, ma vi si riponeva rimedio inchiodandovi sopra un pezzo di latta…
Eppure con quegli arnesi di fortuna compii in quegli anni un apprendistato prezioso, che mi sarebbe servito da adulto. In genere andavamo a sciare nella vallata della Gualdera, dove le discese erano piú dolci, ma l´ebrezza della velocitá la provai soltanto a Madesimo, dove c´era una vera pista dietro l´Hotel Cascata.
L´unico divertimento che i ragazzi del luogo dividevano con noi sfollati era di potersi buttare a testa in giú sugli slittini, guidando con la punta degli scarponi, lungo lo stradone per Campodolcino che per tutto l´inverno rimaneva gelato. Ricordo certe notti di luna piena in cui si formavano brigate di slitta tori, dalla chiesa del paese fino al ponte della Rabbiosa (il torrente che scorreva nella valle) imbacuccati sotto il cielo stellato gareggiando in quella magica luce lunare. Poi si risaliva cantando, trascinando al guinzaglio le slitte, lo sguardo levato alla maestá del Pizzo Stella che dall´alto dominava il paesaggio, con un senso di felicitá che ci ripagava dallo scarso cibo e del niente che avevamo.
Al ´arrivo della primavera riprendevo a esplorare i boschi del monte Groppera, a cercare erbe per l´insalata, a catturare le rane degli stagni della Mottala. I paesani miei coetanei mi guardavano con invidia a scorrazzare su e giú per i loro sentieri, mentre essi erano impegnati assieme ai genitori a falciare o a portare pesanti gerle di letame dalla stalla ai campi da concimare.
Imparo cosa fosse la povertá della gente di montagna quando entravo nelle loro case, dove un fumo nauseabondo esalava dalle fessure della pigna perché (per risparmiare legna) vi bruciavano persino l´ immondizia. E un altro odore rancido proveniva dal grande tavolo da pranzo, dove erano scavate dal legno vivo tante scodelle per ogni membro della famiglia, da riempire di polenta e latte.
E tuttavia, lo scoprivo nei miei vagabondaggi, c´erano borgate ancor piú misere di Fraciscio, come il paesino di Starleggia arrampicato sulla montagna di fronte, sulla strada per raggiungere il Pizzo Quadro. D´estate le donne non portavano scarponi, ma solo rudimentali zoccoli fatti in casa, e con quelli seguivano le mucche all´alpeggio, le gambe sempre rigorosamente coperte di calze di lana nera, la testa in neri fazzoletti, sempre arcigne e sospettose con noi ragazzi di cittá. Questa atmosfera di idillio alpestre cambió bruscamente una sera del 1944. Al crepuscolo strani figuri dalle barbe lunghe e dai mitra a tracolla comparvero in paese, mentre una voce correva da una casa all´altra e gli usci venivano sprangati. Son qui i ribelli.
Li comandava il partigiano Tiberio (che a me parve subito una specie di Garibaldi) e nei giorni successivi cominciammo a familiarizzarci con la loro presenza, al punto che in breve tempo mi trasformai anch´io, senza volerlo, in staffetta partigiana. Isolati dal mondo, avevamo quasi dimenticato l´esistenza della guerra, e ora scoprivamo che era cominciata a nostra insaputa una guerra civile.
Ogni tanto, con disperazione di mia madre, un partigiano bussava alla mia porta per spedirmi subito a portare un messaggio al Lago Angeloga, dove i ribelli (cosí li chiamava la radio) avevano stabilito il loro comando alla Capanna Chiavenna. E una volta, che ancora ricordo con angoscia, mi toccó attraversare il bosco di Motta in piena notte per un´analoga missione presso il collegio di Don Re. Il buio era totale, ma io conoscevo la mulattiera sasso per sasso, anche se il sottobosco era scosso dai mille fruscii degli animali.
Duró pochi mesi l´occupazione partigiana di Fraciscio, perché un´autocolonna di tedeschi e fascisti arrivó in forze da Chiavenna per espugnare quel minaccioso presidio, costringendo i garibaldini a riparare in Svizzera. Ma per me adolescente fu un avventura straordinaria, specialmente quando un giovane partigiano, inseguito e febbricitante, venne a bussare di notte a casa nostra in cerca di rifugio. Il suo nome di battaglia era Pioppo, e certo non potevamo immaginare che si trattasse di Giovanni Pirelli (figlio del noto industriale) che aveva scelto la lotta antifascista.
Il silenzio di quelle montagne che ormai sentivo come mie era stato rotto fin allora soltanto dagli spari dei cacciatori di camosci. Il mattino del rastrellamento echeggiarono invece le mitragliatrici, e il corpo di un partigiano colpito alla testa venne esposto come monito agli abitanti nella sala dell´Oratorio.
Ormai la guerra volgeva alla fine, presto saremmo ritornati in cittá. Prima peró avevo un conto da regolare: salire in cima al Pizzo Stella, la vetta che per tre anni avevo contemplato dalla finestra della mia camera, quella punta sempre innevata che il valtellinese Giovanni Bertacchi aveva immortalato in una sua poesia.
Ci arrivai al seguito di un gruppo di alpinisti chiavennaschi, legato con loro in cordata. Il cielo era terso, e da quel terrazzo di tremila metri, col binocolo, si vedeva brillare in lontananza la Madonnina.