L’alpeggio

Per alpeggio s´intende lo sfruttamento sistematico durante i mesi estivi dei pascoli dell´alta montagna da parte del bestiame, in particolare delle vacche, il cui latte viene lavorato sul posto”. (R. Stampa, Contributo al lessico preromanzo dei dialetti lombardo alpini e romanici. Zurigo 1937). “Nella conduzione dell´alpeggio vi era la proprietá comunitaria da una parte e l´attivitá cooperativa per lo sfruttamento della parte rimanente. L´alpeggio veniva esercitato in modo privato delle famiglie che abitavano in edifici di loro proprietá. La distanza tra l´alpe e il paese naturalmente variava a seconda delle caratteristiche del sito; di solito tutta la famiglia o parte di essa saliva al monte insieme con il bestiame procedendo, con l´avanzare della stagione, fino ai pascoli piú alti”.Bassi, Ercole, “La Valtellina – Guida illustrata“, V edizione, Bissoni, Sondrio, 1927-28

donnelavorocampi alpeggio

Contadina di Prestone (Campodolcino) anni Venti- foto di P.Scheuermeier

pastoritransumanza raccolta fieno

la raccolta del fieno a Campodolcino- fine anni Quaranta

La Casera
Una delle conduzioni piú diffuse dell´alpeggio nelle valli montane era quello della Casera, una piccola azienda familiare molto diffusa nelle Alpi italiane dove normalmente l´alpeggio era un fatto privato anche se esercitato su suolo comunale. “I pascoli dividonsi in comunali e alpi. Dei primi approfittano tutti gli abitanti d´un Comune, e stan piú vicini all´abitato, e per quasi 8 mesi vi s´indugiano le bestie. Gli alpi occupano le sommitá, e non piú di tre mesi vi estivano le mandre, pagando un affitto.” (R. Stampa, op. cit.) E sui terreni rimasti improduttivi “mandansi le bestie, a molte delle quali basta la guardia d´un fanciullo. S´ha dunque la minima spesa, mentre ne provengono allievi ben piú robusti che dal nutrirli nelle stalle; sicchè questa é una delle migliori ricchezze del paese montano“. (S. Morselli, op. cit.)

IL FORMAGGIO “MAGNOCA”

La mungitura
La lavorazione del formaggio iniziava con la fase della mungitura, effettuata due volte al giorno (mattina e sera). “Nei pascoli alpini, dove le vacche venivano condotte durante l´estate, si potevano contare fino a diverse centinai di capi. Le vacche venivano munte di lato, mentre le pecore e le capre da dietro”. “Il mungitore lavorava con entrambe le mani; egli spingeva spesso con forza la testa nel fianco della vacca e per questo portava un piccolo copricapo. Si serviva inoltre di un recipiente particolare e di uno sgabello rotondo con una gamba sola.” (R. Stampa, op. cit.) C´erano diversi tipi di sgabello: solitamente quello a una gamba con sedile rotondo o rettangolare veniva impiegato nella mungitura
all´aperto; quello a tre gambe con sedile rotondo, oblungo o triangolare usato quasi esclusivamente nelle stalle di paese.

Immagine98

coldera e nàpel nella cucina della Cà Bardassa di Fraciscio

La caseificazione
Il latte da caseificare veniva poi scaldato sul fuoco in contenitori di rame (coldere). “La grandezza della caldaia, che serve esclusivamente alla preparazione del formaggio, varia a seconda che venga usata nella casera domestica, in alpe o nel caseificio del paese. Le grandi caldaie delle Alpi possono contenere fino a 2-3 quintali di latte…“. (R. Stampa, op. cit.). La caldaia aveva una forma larga e panciuta, un poco piú stretta sul fondo, e un manico per poterla sospendere sul fuoco durante la cottura e muovere durante le fasi della caseificazione appesa ad un braccio mobile (scigogna).

La mescola
Il latte coagulato veniva poi tolto dal fuoco, sminuzzato e di nuovo riscaldato e rimescolato “finchè le particelle di formaggio che si separano non abbiano raggiunto la dimensione desiderata.” “Ultimata la cottura si prende il formaggio dalla caldaia e si mette in contenitori per dargli la forma desiderata. Per fare questo si usa il Bálz, ovvero un cerchio di legno entro la quale viene messo il composto ottenuto e poi pressato da un´asse di legno per far uscire il siero che potrebbe rovinare il formaggio.” (R. Stampa, op. cit.)

Le capre
Le capre, seppure fornivano buoni alimenti, non erano viste di buon occhio dai valligiani che le consideravano la calamitá piú funesta dei pascoli alpini. “Acute di vista e d´olfatto per iscorgere le strade, agili a scendere i piú ripidi greppi, e travalicare profondi burroni, cercansi da sè il cibo fin arrampicando su piante elevatissime o curvandone i rami per sfogliarli. Non avendo bisogno di chi le custodisca, non temendo inclemenza d´inverno, al caprajo non resta altra pena che mungerle la mattina; poi la sera basta un fischio per richiamarle all´ovile, volonterose d´esser munte di nuovo. Al piú, accostandosi il verno, egli taglia dai boschi cedui o resinosi le fronde ancor in foglie e le fa seccare per pastura vernale di questo sobrio animale“. (S. Morselli, op. cit.)